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"Awaken, My Love!": se non capisci le parole puoi sentire il funk

“Awaken, My Love!”, qualcosa che tradotto suona tipo: “Scetate, ammoremieh!”, detto un po’ col tono del grande Eduarde quando diceva a Niculino di susarsi ché ci stava la ‘a supp’e latt’ nel magistrale “Natale in casa Cupiello”.


Il terzo album di Childish Gambino, anche noto come Donald Glover, riportando alla luce una fortissima eco black anni ’70, suona effettivamente come qualcosa di estremamente fresco all’interno del panorama musicale contemporaneo. La novità diviene ancora più forte ripercorrendo il cursus artistico di Gambino (nota a margine: fosse dipeso da me, avrei optato per uno pseudonimo più dinamico, del tipo Childish Zampino, ma vabbè), caratterizzato da una connotazione prevalentemente hip-hop e, con l’avvento di “Kauai” (2014), pop.

Al tramontare del 2016, invece, Glover ha rivelato al mondo un’inattesa ed insospettabile vena funk, soul e psichedelicamente rock, aprendo un nuovo capitolo del proprio eclettico percorso artistico, attraverso l’esplorazione e la rielaborazione dell’eredità musicale di Prince, George Clinton, Sly & The Family Stone, Parlament-Funkadelic e Isley Brothers. La stessa copertina dell’album è un chiaro tributo all’epico “Maggot Brain” (1971) dei Funkadelic, ponendosi come simbolica attestazione di un volontario rifacimento ad un retaggio che oggi fatica a trovare spazi e percorsi attraverso cui raggiungere il grande pubblico internazionale.



La traccia che mi ha letteralmente stregato, inducendomi all’ascolto dell’ultima fatica di Glover in un coro di sirene omeriche, è “Redbone” (termine slang utilizzato per indicare una ragazza mulatta dalle fattezze molto attraenti), brano dalle sonorità estremamente profonde, di quelle che quando entrano in scena ti fanno esclamare: “Ooooouuuh!”, con reazioni smodatamente scomposte, similari più a degli spasmi che a dei movimenti volontari, un po’ come i giocatori di NBA a bordo campo durante lo Slam Dunk Contest dell’All-Star Game (non fosse che poi quando apri gli occhi a fianco a te non c’è la chiapponzilla bling-bling e nemmeno i ragazzi di via Panisperna dei Lakers, bensì solo la signora che deve scendere alla fermata delle poste che ti fissa scuotendo il capo e proferendo un “Oh, mesniur”).

Recensire le tracce una ad una in poche parole risulterebbe alquanto arduo (e forse anche un po’ stucchevole, poiché raccontare un suono riserva la grande insidia del cadere nel puro didascalismo), quindi mi limito, oltre a raccomandarvi l’ascolto dell’intero album, a segnalarvi, a fianco a “Redbone”, altre quattro bombette: “Me and your mama” (anvedi come ci piacciono i milfini al Gambino), “The night me and your mama met” (aritanghete), “Boogieman” e “California”. Praticamente mezzo album. Poi fate voi, eh.


Concluse le riprese di “Atlanta”, serie pluripremiata nella quale lo stesso Gambino ha vestito i panni di ideatore e attore protagonista (e fai tutto te che sai allora, a Gambì), Mr Donald Glover si è lanciato in una pioneristica campagna promozionale in vista dell’uscita di “Awaken my love!”. Per sommi capi: il 17 Giugno 2016 fa partire il tweet “pharos.earth”, molti pensano sia la sua password di Brazzers, qualcuno tenta di entrargli in casa pensando sia la parola chiave per avere accesso alle feste con lo champagnino e le pheeke, altri rispondono via social con “bella zi, che fatica la vita da bomber” o “#iostoconvale46”. Invece no, se ci cliccavi sopra ti si apriva l’app personalizzata del signor Gambino con tanto di mappamondo e countdown. Se a quel punto non ti fosse sorta spontanea la considerazione “Ma che è sta cazzata!?” e la conseguente cancellazione immediata dell’app per tornare giochicchiare allo scivolo dei pinguini, ecco, se a quel punto avessi osato persistere con una volontà ferrea che nemmeno l’Alfieri, ecco, allora e solo allora ti sarebbe apparsa la freccetta su Joshua Tree, California, con le tre date di presentazione live esclusiva dell’album (mei cojoni, eh!).



A parte le innovative, seppur discutibili, metodiche di marketing di Gambino e del suo entourage, la poliedricità del soggetto emerge non solo dall’imprevedibile evoluzione musicale dal primo album indipendente, poi abiurato, “The younger I get” (2005) ad oggi, bensì anche dal parallelo impegno cinematografico dello stesso Glover.

Tutto ebbe inizio nel 2006, quando l’ancora ventitreenne di Edwards Air Force Base uscito dalla New York University scrisse una serie di bozze e una sceneggiatura per “I Simpsons”, impressionando a tal punto i produttori David Miner e Tina Fey da ottenere un ingaggio per la serie NBC “30 Rock”. Da quel momento in avanti comincerà la progressiva ascesa in ambito televisivo, passando per una serie di cameo, stand-up e incarichi come doppiatore (prestando la voce a differenti personaggi in “Robot Chicken”, Marshall Lee di “Adventure Time” e Spider-Man in “Ultimate Spider-Man”), fino al ruolo di Earn Marks nella 1° stagione di “Atlanta”, valsogli il Golden Globe come miglior attore protagonista in una serie tv poche settimane addietro (assieme a quello come miglior serie televisiva). Nel dorato mondo hollywoodiano risultano invece degne di nota le apparizioni in “The to do list” (un film che…mmm…’nzomma), “The Lazarus effect”, “The Martian” (avete presente lo scienziatello che appare all’improvviso, sbracato sul divano? Quello che trova la risposta a tutti i mali dell’umanità, ma soprattutto a come far tornare a casa il botaniconauta Matt Damon? Ecco, lui, nella più classica delle sciarade all’americana, dove, per risolvere problemi mastodontici, si finisce per introdurre sempre il classico escamotage di quello che la fa tanto facile e, dopo 120 minuti di “Noooooouuuuu, Ciroooooo, oddioddioddioooooo” alla Sandra Milo, mette tutto a posto in un minuto e mezzo, bevendosi anche un Crodino nel frattempo) fino al contratto già ottenuto per la parte di Lando Calrissian in uno spin-off di "Star Wars" su Han Solo (uscita prevista per il 2018).



Eqquindi, sperando di non aver scritto il classico articolo celebrativo (e mi sa che invece un po’ sì, mannacc’), ci sembrava giusto dare spazio a questo nuovo che avanza nel grande mondo della black music, facendosi largo a colpi di groove dei bei tempi andati (un altro sarebbe D'Angelo col suo "Black Messiah", magari se ne parlerà un giorno). Insomma, in un’epoca di rapper che tendono a conquistare e mantenere le luci della ribalta più per presunte sequele di fidanzate celebri, candidature-pantomima alle elezioni americane, contratti per questa o quella firma fashion, stucchevoli comparsate bordocampiste in NBA, ecco, in tempi come questi, viva, viva Childish Gambino.




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